ESTRATTI DI RASSEGNA STAMPA
Pensiero critico emotivo per Pasodoble di Kinkaleri – gennaio 2007
Elisa Fontana Raum (Bologna), 9 dicembre 2006
Un meraviglioso passo a due: Cristina Rizzo copia Cristina Rizzo.
Il pubblico è disorientato. C'è chi grida sottovoce al tradimento, alla messa in scena. Chi sostiene sia tutta una montatura. C'è chi si annoia. C'è chi guarda affascinato. C'è chi esce a fumare. C'è chi beve una birra. L'evento perde i connotati della spettacolarità: nessun pulpito da cui venga proferito verbo destinato a un pubblico comodamente seduto nel suo ovattato paradigma spettatoriale.
Quello a cui stiamo assistendo è: una scrittura corporea nell'atto stesso della sua creazione, un paradossale processo di lunga durata costellato di momenti da seguire con trepidazione.
Una "histoire événementielle" delle disposizioni muscolo-scheletriche del gesto, da seguire avvenimento dopo avvenimento nel suo dipanarsi spazio-temporale. Un tuffo nel vuoto per ogni movimento che si fissa nella sequenza. Una genesi seriale che si fa mondo. Una presa d'identità del gesto clandestino.
Una sequenza casuale che si fa consapevolezza corporea. Un non essere che si fa essere.
Un'assenza che si fa presenza. Una messa in scena del gesto stesso, in completa obbedienza alle sue stesse leggi.
E' una danza anarchica che si fa condurre nelle sfere dell'identità, dove è possibile la ripetizione e quindi l'assunzione di senso. Non c'è premeditazione, nella scelta della danzatrice. Tutto si svolge lì, in completa compresenza di danzatore e pubblico, entrambi allo stesso grado di spiazzamento. Cristina Rizzo è al servizio della sua stessa danza, nella completa sottomissione a quelle regole che solo anni di allenamento permettono di padroneggiare e porre al proprio servizio poetico.
Kinkaleri ha messo in scena il codice stesso della danza, il galateo di un'arte, la carta costituzionale di una disciplina. Se da una decina d'anni sui palcoscenici post-moderni si susseguono lavori in-finiti, s-finiti e non finiti, in Paso Doble è in scena la finalità: parametro che dalla scienza acrobatica entra nel paradigma della danza contemporanea trasformando l'artista in esecutore e il pubblico in inevitabile partecipante.
Posto un problema- la ripetizione di una sequenza improvvisata, nel caso di Paso Doble, così come l'esecuzione di un triplo salto mortale per un acrobata- artista e pubblico si prodigano alla sua risoluzione, ognuno con le proprie maestrie: la competenza fisica dell'artista, la competenza critica del pubblico. In questo frantoio di simboli, in questo disintegrarsi delle volontà e delle rappresentazioni, in questa completa aleatorietà del risultato non resta che partecipare in modo epifanicamente emotivo.
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“Là dov’è anche lei / There also where she is” - Kinkaleri, Pasodoble – luglio 2007
Joe Kelleher (48 min video version, viewed 24/4/07)
Danza con la sua stessa danza. Per un tratto danza abbandonando completamente il video, lasciando in pausa l’immagine sullo schermo. Procede a memoria adesso, con la musica che – immagino – suona nella sua testa. La danza, però, non è fatta solo dei movimenti. È anche lo spazio dove i movimenti avvengono. La stanza. La conformazione della stanza. La direzione assunta. La persona particolare che si muove. Il tempo, il luogo. Tutto trasformato, tutto esattamente uguale a se stesso. O quasi, quasi uguale.
Potenziale. La registrazione sullo schermo non possiede potenziale. Lei lavora senza e con esso, tornando indietro per controllare il tempo, rievocando la registrazione che noi sappiamo essere lì. Non può esserci nient’altro registrato lì. La registrazione non possiede potenziale (oppure è il potenziale puro, è soltanto potenziale) perché conterrà ciò che ci aspettiamo, anche se lei – o chiunque di noi – si è dimenticato cosa aspettarsi. La sua danza, o meglio, il suo recupero della danza, sebbene anche questa sia una registrazione, almeno è così che io la incontro, esplode nel potenziale. Un altro tipo di potenziale. Oppure non potenziale: un’irruzione. Esplode con la possibilità di un’irruzione, dal nulla, in ogni momento, un’irruzione non contenuta in ciò che sta accadendo, o in ciò che stiamo per vedere.
È questo quello che volevo dire. Qualcosa di questo genere. È quello che voglio vedere.
Lei danza col suo stesso istruttore. Lei è il suo stesso istruttore. Impara a danzare insegnando a se stessa. Voglio dire, impara i movimenti. La pedagogia, però, non risiede solo nei movimenti conosciuti, nei movimenti imparati. Ci sono altri movimenti eleganti – della stessa eleganza – fuori dalla danza. Si tratta sempre di questo, con la pedagogia. Ci sono sempre i gesti incidentali, quelli degli insegnanti, quelli degli studenti. Il modo in cui qualcuno si accovaccia per accendere la musica. Il modo in cui altri si accovacciano di fronte allo schermo, telecomando in mano, per guadarlo fare questo. C’è sempre la possibilità di fallimento per qualcuno, come quando ti dimentichi la lezione. Anche se non lo fai. Poi uno immagina di danzare con l’altro. A cosa assomiglierebbe? Lei danza con un’altra se stessa invisibile. Questi momenti, quando lei guarda dietro di sé allo schermo per controllare i movimenti, quest’altra lei invisibile scompare, non è più con lei. Deve crederle, dimenticarla, credere che lei sia lì. Quando c’è, è un po’ di lato sulla destra, nel posto dove si trova lei stessa. Là dov’è anche lei.
Questo è quello che volevo dire. È quello che voglio vedere.
È una foto di qualcuno da solo, una lezione su come lavorare da solo. Non c’è una stanza oltre la porta accanto a questa, dove ciò, qualcos’altro, o qualcosa come questo, sta accadendo.
C’è solo questa stanza, il corridoio interrotto, nel quale una donna fa ciò che tutti facciamo quando copiamo o rubiamo qualcosa. Intendo quando lo facciamo con passione, o quando ci avviciniamo a qualcosa con passione. Lei si riprende ciò che è suo, ciò che vuole sia suo. Noi ci riprendiamo ciò che è nostro, ciò che vogliamo, ciò che di nostro abbiamo perso, ci riappropriamo a partire dai movimenti, quando ci riprendiamo ciò che essi – questi stranieri sul video che ci assomigliano così tanto – ci hanno sottratto. C’è ancora tanto lavoro da fare. La danza migliore, la più completa versione di paso doble, è quella che ancora non abbiamo visto, che avverrà quando alla fine lei si approprierà completamente della danza. Ma questo significa anche ammettere gli errori compiuti nella prima danza, errori che ha già migliorato nell’appropriamento completo della danza. Che vuol dire, quindi, che al momento esiste ancora una parte che le rimane estranea. C’è ancora qualcosa che lei non possiede del tutto. Qualcosa lasciata indietro che può solo essere strappata al futuro. Lei cammina verso di noi, fuori dall’immagine, abbandonando lo schermo in un angolo. In possesso di sé come può esserlo anche se il suo lavoro è finito.
(Traduzione a cura di Annalisa Sacchi )